Lo so, lo so. Sono sparito. Vi ho lasciato anche in sospeso: ero in finale all’undicesima edizione del Premio Zeno con un romanzo inedito (per la cronaca sono arrivato secondo e la serata della premiazione è stata bellissima). Il Premio Zeno è un concorso letterario nazionale a cui vi consiglio di partecipare perché c’è un’atmosfera di comunità letteraria che raramente ho trovato in altri contesti. Ne sanno qualcosa Ramon e Fausto con cui ho condiviso il podio. Ecco, prima o poi una puntata sui premi letterari la facciamo. Cioè, la faccio io, non vi preoccupate, voi la potrete leggere se vorrete.
Oggi invece ripesco una domanda che ho sempre trovato strana: due pagine di foglio protocollo bastano? Una domanda che a scuola, durante il tema, facevano tutti e che continua ad aleggiare anche nel giro di chi scrive. Quanto dev’essere lungo un racconto? E un racconto lungo? E un romanzo? Rispondo una volta per tutte: dipende dalla storia che volete raccontare e soprattutto da come la volete raccontare. Fine puntata. Alla prossima. Oppure potremmo chiederci l’opposto: quanto può essere breve una storia?
La saga (principale) di Harry Potter si divide in sette libri per un totale di 3691 pagine. Stephen King ha scritto la saga della Torre nera in otto libri arrivando a 4823 pagine. Sono saghe direte voi, è normale che siano lunghe. Ok, parliamo di libri autoconclusivi.
L’Ulisse di Joyce ha 1024 pagine, Infinite Jest ne ha 1104, Guerra e pace 1415… i libri lunghi esistono e hanno un notevole fascino, ma per chi non ha ancora la capacità di gestire una tale mole di parole può essere interessante capire la quantità minima di scrittura necessaria per realizzare una storia. E in questo caso la risposta è che potete scrivere davvero poco. Per capirlo basta leggere le canzoni. Per esempio La guerra di Piero.
Questa è una canzone famosissima, forse però vale la pena osservarne il testo con la lente del tipico “corso di scrittura base”, perché la sua bellezza si fonda su una struttura narrativa molto interessante e super classica.
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi
L’inizio è molto cinematografico: si parte da un corpo sepolto in un campo. Se non fosse per un certo lirismo potrebbe essere l’incipit di una puntata di NCIS o di True detective.
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Nella seconda strofa l’ambientazione si amplia, vediamo un fiume e scopriamo che i cadaveri dei soldati a volte scendono a valle trascinati dalla corrente. Capiamo che anche il cadavere del campo di grano è un cadavere legato alla guerra. C’è un elemento in più però: un pensiero malinconico di qualcuno che vedendo tutto questo ricorda quando i “lucci argentati” erano il motivo di interesse principale legato al fiume.
Non voglio analizzare nel dettaglio l’uso delle parole, però è evidente che dire “Lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati” è ben più diretto (e meno generico) rispetto a qualcosa che potrebbe suonare tipo: “Mi ricordo quando nel fiume vedevo i pesci”. Il ricordo nella strofa non è esplicito, è il sottotesto di un desiderio (“Voglio”). Ne viene fuori un’immagine personale, precisa, che fa capo a ricordi specifici: i raggi del sole che illuminano le squame dei lucci.
In genere più si è precisi, più si è sintetici. In una canzone ogni parola deve rientrare in una metrica esatta e non ci si può permettere di sprecare spazio con termini vaghi. Se escludiamo la metrica (ma se ne dovrebbe comunque parlare…) la stessa cosa vale per un testo letterario. Racconto o romanzo che sia.
Così dicevi ed era d'inverno
E come gli altri verso l'inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve
Il protagonista appare sulla scena, è inverno, va verso il fronte, “triste come chi deve”. Arruolato contro la propria volontà. Inoltre l’attacco della strofa fa in modo di collegare il pensiero malinconico del torrente al protagonista che in questo modo acquisisce spessore: ha vissuto la guerra come qualcosa che cambiava il paesaggio, ora gli sta cambiando la vita.
Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po' addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce
Qui l’azione si prende una pausa, ma non per questo il passaggio è interlocutorio. Dopo averci presentato l’ambientazione e il protagonista De André lo chiama per nome e gli parla. È un modo per renderlo definitivamente reale, avvicinarlo ancora di più al lettore all’ascoltatore e per permettersi una riflessione/avvertimento. C’è una sospensione del movimento, evidenziata dal vento, che in maniera esplicita cerca di far arrivare un messaggio a Piero (chi muore in battaglia, ottiene ben poco) ma che in realtà disegna un tema e affina l’umore del racconto per noi che assistiamo.
Ma tu non lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a varcar la frontiera
In un bel giorno di primavera
Infatti Piero non riceve il messaggio. Marcia, passa il tempo, e quando supera la frontiera è primavera.
E mentre marciavi con l'anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
Ormai conosciamo il protagonista della canzone. Infatti De André introduce l’antagonista. Compare “in fondo alla valle” e in una frase, appoggiandosi a tutto quanto è già stato detto su Piero, ci fa conoscere il suo stato d’animo (“Che aveva il tuo stesso identico umore”) e il suo status di villain (“Ma la divisa di un altro colore”).
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
Qui c’è di nuovo l’autore che parla a Piero. Queste pause hanno l’effetto di ampliare l’attesa e il pathos per quello che sta per accadere. La prima pausa era arrivata dopo aver visto Piero, diventato ormai un soldato, superare la frontiera; ne arriva un’altra ora, dopo aver incontrato il nemico.
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
Qui Piero riprende il pensiero dell’autore. La transizione è fluidissima, come se avesse sentito e rispondesse proseguendo il ragionamento. Si rende conto che quello che sta per fare lo porterebbe a uccidere qualcuno. L’esitazione è un’esitazione anche nel racconto stesso: sono passate due strofe da quando c’è stato l’avvistamento dell’uniforme di un altro colore.
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l'artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Subito l’altro ne approfitta. La prima riga sottolinea il momento di sospensione dovuto al ragionamento, nella seconda vediamo la reazione dell’altro, nella terza il fucile che si alza e nella quarta lo sparo, raccontato con sottile dolcezza, senza mostrare schizzi di sangue alla Tarantino, restando nel registro lirico della canzone. Un’inquadratura cinematografica equivalente poteva mostrare la canna del fucile che fa fuoco o, ancora più in linea con il registro della canzone, lo schermo poteva essere riempito da un calmo panorama primaverile invaso dal suono del fucile.
Questo a cui abbiamo assistito è il climax della storia: lo scontro, con un finale drammatico, tra il protagonista e l’antagonista.
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
La morte del protagonista. Il tempo narrativo riprende la velocità normale e la rapidità degli avvenimenti consente un solo pensiero.
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno
La morte di Piero viene enfatizzata da due strofe che si ripetono parzialmente. Nella seconda però si introduce il tema del ritorno che non ci sarà.
Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all'inferno
Avrei preferito andarci in inverno
De André fa un salto drammatico: introduce anche il tema dell’amore perduto, subito dopo la morte del protagonista. Farlo in questo modo, come se fosse un’invocazione di Piero nel momento in cui si rende conto che sta morendo, ne aumenta il peso emotivo. Sarebbe stato molto diverso se Ninetta fosse comparsa all’inizio del viaggio verso la frontiera, in una classica scena di addio. Ninetta invece appare quando nulla si può salvare e la perdita è certa: la sua presenza è equiparabile a un colpo di scena, un momento rivelatorio in grado di far chiudere l’arco di trasformazione e di crescita legato alla storia e di farlo chiudere non al protagonista, che è sconfitto, ma al lettore all’ascoltatore.
E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Giunti ormai alla fine torna il tema della canzone: la solitudine di un ragazzo che parte per le guerra, che muore solo, senza una ragione.
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi
Il finale circolare chiude il racconto la canzone riportandoci alla strofa inziale.
La guerra di Piero è una storia intera raccontata in strofe. Segue un protagonista, Piero, che muore solo in una guerra non sua. C’è un cattivo, di cui però conosciamo le motivazioni e lo comprendiamo, non è un cattivo di cartone, c’è un amore spezzato, un tema importante, la storia di un territorio. De André aveva un talento meraviglioso.
E se volessimo qualcosa di meno irraggiungibile? Se ci accontentassimo di tratteggiare un comprimario? Ok, andiamo da Eleonor Rigby.
Di questa canzone prenderò solo il testo che riguarda il personaggio che le dà il titolo: Eleonor Rigby, appunto. Ovviamente anche l’altro personaggio, padre Mackenziе è fantastico e insieme creano un’ambientazione molto interessante. Ma per quello che vogliamo vedere basta lei.
Lo schema narrativo della canzone è semplice: il ritornello, introdotto all’inizio, presenta il tema, poi compare Eleonor Rigby, ritorna il tema, compare il parroco, tema/ritornello di nuovo e in rapida sequenza il finale di Eleonor Rigby e di padre Mackenzie (lui potrebbe essere l’eroe tragico della storia, ma il testo per come è scritto mi lascia pensare che il fallimento sia collettivo: due persone lasciate sole, con il peso che ricade su tutte le persone che non sono nella canzone, in un certo senso su tutti noi).
Eleanor Rigby
Picks up the rice in the church where the wedding has been
Lives in a dreamWait's at the window
Wearing the face that she keeps in a jar by the door
Who is it for?
In italiano:
Eleonor Rigby
Raccoglie il riso nella chiesa dove si è celebrato un matrimonio
Vive in un sognoAttende alla finestra
Indossa la faccia che conserva in un barattolo vicino alla porta
Per chi è?
Bastano due strofe per definire Eleonor Rigby. Nella prima la vediamo raccogliere il riso che è stato lanciato a due sposi. Il matrimonio è finito, si capisce che lei non faceva parte nemmeno degli invitati, eppure “Vive in un sogno”. Queste ultime parole ci raccontano sia che Eleonor Rigby appartiene a quelle persone che abitano, per loro sopravvivenza, una realtà distante da quella comune, sia che è legata e partecipa a questo matrimonio già finito in maniera più viva di quanto sarebbe scontato.
Nella seconda strofa è invece alla finestra, guarda fuori, e indossa quella “faccia che conserva in un barattolo vicino alla porta”. Con una sola frase scendiamo a un livello ancora più profondo di conoscenza. Eleonor Rigby non è semplicemente una persona che ha perso il senno. Tiene vicino alla porta, quindi pronta per quando abbandona la sua casa e sta per uscire, una faccia che indossa quando potrebbe incontrare altre persone. Ce l’ha anche adesso, mentre aspetta alla finestra, un momento in cui qualcuno la potrebbe vedere e quindi un momento in cui potrebbe esistere qualcuno con cui relazionarsi.
Eleonor Rigby ci dimostra con quanta profondità affronta la sua solitudine e quanto è profondo il suo disagio. Il finale “Per chi è?” ci fa capire che la faccia che ha indossato è inutile, Eleonor Rigby non deve incontrare nessuno.
Pensate a quanti personaggi secondari non vi lasciano nulla. Eleonor Rigby la conoscete con questa intensità dopo solo 39 parole, 34 in italiano. Come se non fosse sufficiente averla descritta con questa bravura per lei c’è anche un finale.
Eleanor Rigby died in the church and was
Buried along with her name nobody came
In italiano:
Eleonora Rigby morì nella chiesa e fu
sepolta insieme al suo nome nessuno venne
Muore, nessuno viene al suo funerale e viene sepolta “insieme al suo nome”, cioè non ha avuto figli o non li ha più: è l’ultima della sua famiglia.
Ovviamente la sua solitudine risuona con quella di padre Mackenziе (e la canzone acquisisce spessore), ma già Eleonor Rigby da sola dà l’idea di come si possa raccontare un personaggio senza dover ricorrere a pagine e pagine di parole. Cosa dovete raccontare? Perché? Forse basta molto meno di quello che avete sul foglio. Io cerco sempre di tenere sott’occhio due tempi: il tempo della narrazione che per me concorre al senso di quello che sto raccontando e il tempo del lettore che è sempre il più prezioso e non va sprecato.
Chiudiamo questa rincorsa verso il minor numero possibile di parole con la più famosa tra le storie brevi, quella attribuita (ma non è vero, non è sua) a Hemingway. Una storia in sei parole.
For sale: baby shoes, never worn
In vendita: scarpe da bambino, mai usate.
Questo è più che altro un esercizio di stile, ma è interessante per vari motivi. Se per esempio manteniamo la stessa struttura cambiando il soggetto: “In vendita: cartuccia per stampante, mai usata” la storia non sta più in piedi. O meglio, è una storia così priva di tensione e dramma che non ce ne importa nulla. Ovviamente il dramma non viene raccontato nemmeno nella frase originale, ma le parole usate riescono a evocarlo nella mente di chi legge.
Se scriviamo “Sono le 23” o “Si sta facendo tardi” potremmo anche voler dire la stessa cosa, ma le due frasi, prive di altro contesto sono molto diverse perché la prima contiene solo un’informazione: l’orario, le 23. La seconda invece perde il valore numerico, non sappiamo più che ore sono, ma conosciamo il vissuto di qualcuno rispetto all’orario corrente. E questo a livello narrativo fa una differenza immensa.
Io a volte mi incastro con le distanze tra gli oggetti/luoghi o i movimenti dei personaggi, li vorrei descrivere al millimetro. Mi devo ricordare sempre che non sto scrivendo un manuale di montaggio per una scena, sto scrivendo la scena. E riguardo alla storia in sei parole il punto è questo: il libro non sta sul foglio, sta nella testa di chi legge. Lasciare che sia il lettore a completare il disegno è un modo molto efficace per rendere coinvolgente ed emozionante la lettura.
Siamo partiti da una canzone di De André, passati attraverso due strofe dei Beatles e arrivati a una storia in sei parole. Forse per questa puntata potevo scrivere solo il paragrafo qui sopra. Avrei usato molte meno parole. Serviva tutto il resto? La risposta la lascio a voi. Ci rileggiamo nella prossima puntata!
Puntata bellissima per il ritorno di Scrivere! Io sono uno di quelli che usa troppe parole quando scrive (ma per fortuna taglio durante la revisione), per cui ammiro tantissimo chi riesce a scrivere una storia usandone poche. Visto che hai citato quella erroneamente attribuita a Hemingway, io rilancio con la storia erroneamente attribuita a Stephen King: "L'ultimo uomo rimasto sulla Terra è chiuso nella sua stanza. Bussano."
Cercherò di essere breve😉: grazie!